Alcuni anni fa, fui contattato dai famigliari di un paziente che aveva subito un grave trauma dell’arto superiore conseguente a un incidente motociclistico avvenuto in un’altra provincia: il guard rail contro il quale era finito aveva causato la sub-amputazione del braccio a livello del terzo medio, per cui era stato trasportato presso il nosocomio più vicino e trattato in urgenza.
Era stata richiesta la mia consulenza fuori sede, per valutare il paziente che era ricoverato presso il reparto di Rianimazione dell’Ospedale che lo aveva trattato e dove i sanitari avevano fatto del loro meglio per salvare l’arto utilizzando diversi specialisti: l’ortopedico aveva applicato un fissatore esterno, il chirurgo vascolare aveva suturato l’arteria omerale, il neurochirurgo aveva effettuato la neuroraffia del mediano e dell’ulnare (del nervo radiale non vi era menzione) e al chirurgo plastico era stata lasciata l’incombenza delle suture muscolari e cutanee.
La situazione locale era drammatica, con presenza di importante deiscenza della ferita cutanea, in fase di grave suppurazione, febbre elevata e alterazione degli esami di laboratorio e per il medico rianimatore era presente un elevato rischio di insufficienza renale.
Purtroppo, i sanitari che avevano eseguito l’intervento possedevano opinioni divergenti su come proseguire il trattamento: amputare privilegiando la vita del paziente o attendere nella speranza di salvaguardare la sua completa integrità corporea. Anche se sono passati molti anni ricordo perfettamente, quando dopo aver parlato con il paziente e i suoi famigliari, scrissi nella cartella clinica che consigliavo l’amputazione.
Tornando a casa pensai spesso se avessi consigliato la giusta scelta e nello stesso tempo mi resi conto di quanto fossi fortunato a lavorare a Modena. Un caso così complesso avrebbe dovuto essere gestito da un singolo team che avesse la capacità di eseguire l’osteosintesi, le mioraffie, le neuroraffie e le differenti suture vascolari microchirurgiche e di monitorare il paziente quotidianamente; e pensai “a Modena questo è possibile”.
Gli incontri della vita professionale avevano dato il giusto indirizzo segnando la via in modo indelebile.
Il prof. Paolo Bedeschi, infatti, aveva appreso dal pioniere di questa chirurgia il prof. Hano Millesi che era necessario introdurre l’uso del microscopio operatorio per ricostruire i nervi e il prof. Luigi Celli divenne leader nazionale ed europeo nella chirurgia dei nervi periferici, incluso il plesso brachiale.
Quando verso la metà degli anni ’70 arrivò la microchirurgia, il dr. Antonio Landi, dopo il suo periodo di studio a Melbourne presso il St. Vincent’s Hospital, aprì la strada ai reimpianti e ai lembi liberi.
Il prof. Alessandro Caroli, era stato per anni il traumatologo della clinica, in grado di gestire qualsiasi tipo di evento, poi la sua grande passione per la chirurgia della mano e soprattutto per le deformità congenite lo avevano portato a essere il primo Direttore del Reparto di Chirurgia della Mano. Tutti avevano avuto in comune un grande Maestro: il prof. Augusto Bonola.
Averli incontrati era stato come riporta la celebre citazione di Isaac Newton, If I have seen further, it is by standing on the shoulder of giants.
Quando all’inizio degli anni ’60 l’economia italiana iniziò la sua trasformazione passando da contadina-artigianale a industriale, si verificò un conseguente aumento delle lesioni traumatiche della mano e il prof. Bonola intuì che si sarebbe aperto un nuovo capitolo chirurgico e che la chirurgia della mano avrebbe assunto un ruolo fondamentale negli anni a venire.
Il prof. Bonola comprese che la chirurgia della mano sarebbe stata, come amava ripetere, una chirurgia di superficie e di profondità e avrebbe dovuto riunire insieme esperienza ortopedica, traumatologica, neurochirurgica e plastica. Questa filosofia sarà poi seguita e interpretata non solo a Modena ma anche a Legnano con il prof. Ezio Morelli, a Brescia con il prof. Giorgio Brunelli, a Firenze con il prof. Carlo Bufalini, a Savona con il prof. Renzo Mantero e a Verona con il dr. Landino Cugola.
Gli anni ’80 furono caratterizzati da una intensa attività microchirurgica, la chirurgia della mano stava cambiando e gli anni a venire lo evidenzieranno maggiormente; nuove protesi, nuovi mezzi di sintesi, l’artroscopia… ma la vera rivoluzione fu rappresentata dalla microchirurgia con i reimpianti, le ricostruzioni cutanee, muscolari, ossee, articolari e nervose spesso composite, che rivestiranno il ruolo principale modificando radicalmente il risultato finale con conseguente migliore funzionalità, con tempi più rapidi di guarigione, con ottimi risultati cosmetici e soprattutto con una migliore qualità di vita del paziente. Sono i Centri sovra menzionati che apriranno la strada a questo nuovo tipo di chirurgia: è la strategia del tutto in un unico tempo, trasmessa dalla grande scuola francese dell’epoca (Foucher, Merle, Michon, Gilbert…).
È stato un periodo prolifico che molti della mia generazione hanno vissuto intensamente, con frequenze anche lunghe presso centri esteri al fine di migliorare conoscenze anatomiche e chirurgiche, capacità tecniche e relazionali.
Continuo a credere che per la chirurgia della mano non si possa parlare di ortoplastica, termine spesso abusato, in quanto la chirurgia della mano è certo ortopedica e plastica, ma è anche neurochirurgica e traumatologica: un intervento di pollicizzazione in un bambino di un anno, è già di per sé tutto ciò.
Forse ci si dovrebbe interrogare sul ruolo che attualmente hanno il SSN e l’Università. I centri di chirurgia della mano in grado di trattare le urgenze microchirurgiche e no, di effettuare complessi interventi ricostruttivi, incluse le deformità congenite e la tetraplegia-spasticità, le patologie del polso…, non sono tantissimi. Andrebbero potenziati con un adeguato ricambio generazionale, e le scuole di specialità in Ortopedia e in Chirurgia Plastica dovrebbero essere costantemente al nostro fianco.
Il privato convenzionato può rappresentare e rappresenta sempre di più, anche per i giovani, una scelta di vita e di lavoro, intesa talvolta anche come passione verso un tipo di attività super specialistica.
Difficilmente però un singolo individuo potrà avere la capacità e la conoscenza per poter affrontare tutte le diverse tematiche della chirurgia della mano, considerando inoltre che l’urgenza, salvo rarissime eccezioni, si dirige unicamente verso strutture sanitarie ben definite. La Chirurgia della mano, infatti, se si vuole mantenere l’elevato livello raggiunto in questi decenni, ha bisogno del team, del SSN, del “grosso” Ospedale come centro di riferimento e dell’Università, che dovrebbe creare i futuri specialisti, ma che la emargina come attualmente succede.